Ci ho messo un giorno intero prima di capire che quello che era successo era un episodio di Rejection Sensitive Dysphoria (RSD).
È servito un intero giorno per lavare via quella sensazione di essere sbagliatə, di sentirsi fuori posto, di percepire un giudizio.
Queste sensazioni sono comuni a chi vive l’ADHD, ancor di più genitorə ADHD, già tanto preda di consigli e giudizi non richiesti.
Non è facile spiegare razionalmente qualcosa di irrazionale, ma se dovessi descrivere cosa significa per me un episodio di RSD direi che è la consapevolezza di aver fatto qualcosa di sbagliato, un senso di errore, un campanello d’allarme che si attiva e che percepisco mentalmente e fisicamente. È come un’allerta: “Attenzione, stai per pagare le conseguenze di un errore, stai per essere punitə, moralmente o fisicamente, per qualcosa che hai detto o fatto o per il modo in cui lo hai detto o fatto”.
In più questo errore – fantomatico – ti sminuisce agli occhi degli altri, ti rende meno validə, meno accettabile, ti escluderà e renderà ogni tua futura relazione con quelle persone sbilanciata a tuo sfavore.
Per me, percepire rifiuto è una sensazione fisica, come se mi spingessero, come se mi allontanassero. Col tempo ho sviluppato una risposta contraria: innalzo muri, espongo aculei immaginari, mi chiudo. Fingo che non mi ferisca e che non mi importi. Dentro posso sentirmi morire, sola ed esclusa, ma indosso la mia armatura. Ingoio amaro e me lo gestisco dopo, in solitudine. Non è sempre salutare, ma non si ha sempre la possibilità di esporsi e dire: “scusami, hai detto questa cosa, mi spieghi cosa intendi?”.
Era un mercoledì di inizio anno scolastico. E. frequenta il secondo anno della scuola dell’infanzia, e accanto all’edificio c’è un parco giochi dove, quasi sempre all’uscita, bimə e genitorə si fermano a giocare liberamente. Quel giorno ci siamo fermatə anche noi, la giornata era bella. C’erano altre quattro mamme con rispettivə bimbə che conoscono già E.
Nonostante il mio sorriso e il saluto amichevole, mi sono subito sentita fuori posto.
Le mamme si conoscevano da tempo e chiacchieravano tra loro, io cercavo di inserirmi nella conversazione, ma senza trovare un appiglio. Non sapevo cosa dire e avevo paura di sembrare invadente se avessi fatto domande o scortese se avessi parlato della mia esperienza per relazionarmi, perché so bene che chi è neurotipicə spesso interpreta questo come egocentrismo.
È una vita che mi succede, di sentirmi fuori posto, fuori sincrono; credi di abituartici prima o poi, ma il poi non arriva mai.
Ad un certo punto, lə bimbə salgono sul terrapieno accanto al muro di cinta del parco. Nulla di nuovo, E. ci sale sempre, non è pericoloso, almeno io non lo ritengo tale. Ci sono un po’ di sassi, ma la salita non è scivolosa, ci sono arbusti, e da lì possono poi scendere dallo scivolo.
Quasi subito una delle mamme richiama il proprio bimbo a scendere. Io mi gelo. Ho paura. Non perché pensi sia pericoloso, ma per assurdo proprio perchè non lo penso.
E se io non giudicassi pericoloso qualcosa che invece lo è? So che il mio cervello ha una percezione diversa rispetto alla media di ciò che è potenzialmente rischioso, ho una sensibilità diversa rispetto a ciò che considero pericoloso, fa parte del mio essere ADHD, pur avendo un pensiero rigido su regole e regolamenti, sopratutto sulla cosa pubblica, ho paura: e se la mia percezione del rischio mettesse in pericolo E. ed L.? E se non vigilassi nel modo giusto, perché non mi rendo conto del rischio, esponendoli a comportamenti pericolosi?
Questi pensieri arrivano, intensi, potenti, insieme a tutta l’ansia che si genera quando percepisco rifiuto e giudizio (RSD)
Cerco di respirare, mi ancoro al qui ed ora, e provo a restare razionale: guardo E, lo conosco, so cosa è capace di fare: arrampicarsi, rotolare, cadere e rialzarsi, aggrapparsi. E lui sta bene. Non gli sta succedendo nulla, il terreno è stabile, non ci sono sassi che scivolano o franano, né fango o vetri.
Mi rilasso, ma non troppo.
E. scende per stare con il gruppetto, ma dimentica il richiamo e risale più volte. Io mi sento tanto fuori posto, mi chiedo dove stia il problema, mi è innaturale richiamare E dal non fare qualcosa di cui non vedo il rischio, ne la criticità.
Faccio uno sforzo, lo richiamo a stare in basso, dove tuttə possono giocare, uso l’ironia, scherzando gli dico che non tutti possono arrampicarsi come fa lui che è una scimmietta.
La mia paura è che E. sia trascinante e faccia fare ad altrə cose che non è loro permesso fare. Forse mi preoccupa che lui possa essere visto negativamente.
Questa volta una mamma dice che non è tanto per lo sporcarsi (il nesso potrei averlo perso nei discorsi, tra stimoli di luci e rumori, perché per me sporcarsi è proprio l’ultimo dei problemi quando si tratta di bambinə), ma la mamma in questione non vuole che il suo bimbo salga perché nei giorni precedenti ha visto un topo.
Riesco a mantenere la calma e non commento.
So che se avessi aperto bocca, qualcunə avrebbe potuto offendersi.
Non abitiamo in centro a Milano (dove comunque, molto probabilmente, ci sono pantegane di tutto rispetto), ma in campagna, in provincia, in mezzo alle colline e ai campi.
Il topo incriminato viene descritto a gesti come circa 15cm, coda inclusa; nella mia testa è una moricciola (un piccolissimo topo di campagna). Tra me e me rido, pensando che probabilmente se fossi io la moricciola, avrei più paura io dei rumori fatti dai bimbi, che loro di me.
So che i topi possono portare malattie, ma non mi aspetto che il topo mi aggredisca, mi aspetto che il topo scappi, come non mi aspetto che mio figlio metta le mani in escrementi vari (che al parco potrebbero anche benissimo essere di cane o gatto); il buon senso -poco magari, ma ce l’ho pure io- mi dice che come prima cosa gli laverò le mani.
Resta però il fatto che questo divario tra percezioni mi ha fatta sentire ancora più in disparte e diversa. Se non addirittura una pessima mamma.
In tutto questo siparietto ad un certo punto E. mi è venuto incontro chiedendomi di giocare: “Mamma, facciamo che noi siamo i porcellini e tu sei il lupo che ci deve mangiare”, che si è tradotto in una me che correva in giro per il parco ululando o soffiando su immaginarie casette per provare a mangiarsi i porcellini.
Le mamme non ho ancora capito se erano perplesse per la performance o per la naturalezza con cui trovo normale giocare con E. al suo livello. Altri genitorə ridevano con noi. Forse è solo una cosa soggettiva, mi dico, non tutto è per forza legato all’ADHD… forse
Non vivo bene, mai l’ho fatto, l’essere vista strana dalle altre persone. In infanzia ci soffrivo moltissimo, ho passato le elementari a cercare di affinare tutte le tecniche di masking possibili ed immaginabili e mi ci è voluto tempo per capirlo e riconoscerlo. Alle medie, grazie anche all’adolescenza, ho iniziato a fregarmene un po’ di più, volevo solo essere me e che mi lasciassero in pace, visto che io non impedivo a nessunə di essere sè stessə.
In età adulta ho attraversato alti e bassi, ma certi atteggiamenti di masking diventano così integrati, così radicati, che si finisce con il dimenticarsi come si potrebbe – e si vorrebbe – essere se non si avesse paura di scherno, derisione, esclusione, di essere feritə, bullizzatoə, discriminatə.
Mi sono sempre creduta libera dalle influenze altrui, la verità è che le avevo interiorizzate così bene, così profondamente, che ci sono voluti anni di terapia per iniziare anche solo a capire dove iniziavo io e dove iniziava la paura di non poter essere me.
E non stiamo parlando di comportamenti antisociali, sia chiaro, ma di una ragazza che non poteva fare stimming, quindi scriveva, che non riusciva a farsi amicə, quindi leggeva, che era spesso solə quindi soffriva, che non poteva vestirsi come voleva perché non era ben visto (sono cresciuta in provincia, sono stata adolescentə nei primi anni 2000: le subculture alternative punk, goth, emo, non erano esattamente ben viste né dagli adulti, né diə coetaneə, e di certo non avevo la fiducia in me stessa necessaria a fregarmene. Sono sempre stata, ero e sarò “quella alternativa”, ma a livelli diversi proporzionali al mio livello di benessere mentale e di autostima).
Ritrovarmi ora da adultə in situazioni come quella di mercoledì al parco, apre, quasi spalanca, quella porta che fa entrare la paura. Paura della solitudine, paura dello stigma, solo che ora ho paura che il mio tutto ricada su mio figlio. Paura di essere presa in giro, aggredita, criticata, discriminata.
Ho modulato e rimodulato tantissime volte il mio modo di interagire con altrə persone, perché mi è stato fatto notare così tante volte di essere percepitə come “troppə”. Come si fa a parlare con le persone non l’ho mai davvero capito, me ne rendo sempre più conto nel tempo che passo a destrutturarmi per la mia sanità mentale. Io mi immagino di aver interagito in un determinato modo, per poi passare le ore successive all’interazione a rianalizzare ogni passaggio chiedendomi se è stato giusto, se è stato troppo, come sarà stato percepito.
So che alle persone piace se si fanno domande su di loro, ma non so mai cosa chiedere perché non voglio sembrare invadente. So che non dovrei usare la formula del “anche a me”, la più naturale ed ovvia per dimostrare che si capisce e ci si relaziona, ma che viene percepita come egocentrismo. Non va bene… e quindi, davvero, come si fa a parlare con una persona neurotipica senza dover per forza parlare del tempo? Per questo spesso sto zitta.
Una parte delle difficoltà sta nei segnali che ricevo dagli altrə. Purtroppo, una grande red flag è quando qualcuno nega l’esistenza delle neurodivergenze con frasi tipo “ai miei tempi non c’erano” o “sono tutte scuse” o “si beh, siamo tutti un po’ ADHD o autistici”. Sono pugni nello stomaco, perché sminuiscono anni di fatica, dolore e terapia. Non riesco mai a non rispondere del tutto, così ho elaborato una frase: “Certo, tutti andiamo in bagno ogni giorno, ma non tutti abbiamo problemi di incontinenza”.
Chi fa domande, invece, solitamente lo fa perché è genuinamente interessato a capire. E lì respiro meglio, lì riesco a sentire che forse dialogare è possibile.
Accettare che ciò che per qualcuno non è necessario possa esserlo per qualcun altro è già un punto di partenza. Io non ho bisogno di ausili per camminare, ma non ci trovo nulla di incomprensibile se qualcun altrə invece ne ha bisogno. Lo stesso vale per lo stimming: se serve a qualcuno per mantenere la concentrazione, perché impedirlo solo sulla base di regole rigide che ci vogliono “tutti dritti e allineati”? Essere aperti alle diversità, a ciò che non è come noi, è il primo passo per rendere il mondo più inclusivo.
Eppure le difficoltà restano: le conversazioni di circostanza non ho mai trovato un modo per superarle. Le lascio lì, vuote. Quanto alle strategie per entrare nelle conversazioni senza sentirmi invadente… boh, ci provo, a volte funziona a volte no.
La solitudine che deriva dal non sentirsi mai davvero inseritə in un contesto sociale e culturale mi fa sentire come se fossi sempre in visita a casa mia. Dovrei sentirmi al sicuro, decodificare ormai con naturalezza appresa con l’età tutte le convenzioni sociali, ma in verità è tutto sempre fumoso e complesso, ad un livello inversamente proporzionale. Più le relazioni sono superficiali, più mi è difficile navigarle, più è necessario mantenere distanze che non riesco a calcolare correttamente, più ho paura di esagerare, quindi la soluzione di base è proteggere me stessə, la mia psiche, la mia anima, la mia intimità.
Mi chiudo a riccio, ho paura, pungo anche se non voglio, emano una sorta di aura che diffida dall’avvicinarsi – eppure i bimbə che giocano con me al parco non hanno avuto problemi a sfondare quella barriera; loro vedono dove moltissimə adultə non vedono più. Però erigere muri o anche solo recinzioni non tiene solo fuori gli altrə, ma allontana anche me. È un’arma a doppio taglio ed io ho bisogno di connessioni. Come mamma, come donna, come persona, in quanto animale sociale. Magari poco sociale, anche se socievole, perché poi ho bisogno di ricaricare le mie batterie, ma se non fosse sempre tutto così complicato, magari socializzerei anche di più!
Ci vorrebbe un dizionario, una sorta di stele di rosetta che traduca il modo di fare, pensare ed essere diə neurotipicə. Ed a loro servirebbero più informazioni, più apertura e più consapevolezza. E meno ansia, per tuttə!
E. mi somiglia molto, anche se è ancora presto, vedo in lui moltissimo di me, anche in senso neurodivergente. Ho spesso paura che questo gli si ritorca contro nella crescita, esattamente come è stato per me. Ho paura per la sua sensibilità ed il suo essere un po’ naïve a volte, ho paura del bullismo da parte di compagnə, ma anche tanto dell’indifferenza di adultə che avallano o sminuiscono quel bullismo, ho paura delle istituzioni non aggiornate e non inclusive, dello stigma, delle difficoltà che, nonostante tutto, avrà, perché il mondo non è ancora a misura di persone neurodivergenti e forse non lo sarà mai. Quest’ultima cosa dipende tantissimo da come stiamo crescendo le nuove generazioni, come E. ed L., che saranno maggiorenni tra 15 anni. Sembrano tanti, ma in un’ottica di cambiamenti sociali sono un soffio. Chi lo sa se riusciremo a sfruttare questo soffio in bene.
Mi piacerebbe un futuro per loro dove è scontato che se un’azione da beneficio ad una persona con una qualsiasi diversità (fisica, neurologica, comportamentale, sociale…) allora è un bene per tutti. Dove l’equità sia la base di ragionamento per creare un terreno di partenza per tuttə. Dove chiunque ha la stessa libertà e possibilità di accesso a risorse, strutture, luoghi. Penso alla scuola: accessibilità fisica, ma anche sensoriale. Non c’è motivo per cui debbano esserci le scale, quando possiamo avere uno scivolo di accesso. Perché non avere luci più riposanti per gli occhi, perché non strutturare la giornata scolastica con più pause, soprattutto quando si parla di scuola primaria dove il passaggio dalla scuola dell’infanzia mi è sempre parso traumatico. Perché i libri di testo non possano essere tutti già di base stampati con caratteri più favorevoli a chi ha difficoltà di lettura ad esempio dislessia, perché non vengano formati tutti gli insegnanti ad adattare il proprio metodo, indipendentemente da chi hanno davanti, dando per scontato che ogni persona apprende in modo diverso, anziché dare per scontato che siano le persone a doversi adattare a metodi di insegnamento spessissimo anacronistici e non a misura di bambinə. Mi immagino un insegnante che è in grado di spiegare la matematica con diversi approcci, in grado di capire che non per tutti è così logica ed immediata, insegnanti che si rendono conto che se spiegano una cosa tre volte nello stesso modo chi non l’ha capita la prima volta non la capirà nemmeno la seconda e nemmeno la terza. Normalizzare la diversità. Siamo già tutti uguali nel momento in cui siamo persone, la nostra pluralità non ci rende meno persone o meno di valore. Credo che queste cose si ottengano oggi, con l’enorme compito di educare le personcine di domani. Trasmettendo oggi cose che non sono state trasmesse a noi, e può essere difficilissimo, davvero difficilissimo, perché non abbiamo un libretto di istruzioni, ma è da noi genitorə che parte tutto. Se noi siamo inclusivi, se insegniamo a vedere le diversità come parte naturale dell’esistenza e non come motivo di divisione, se siamo accoglienti, curiosi ed aperti a ciò che è meno frequente, a cioè che può anche sembrare insolito, le nostre personcine di domani ci possono stupire tantissimo.
La comunità è fatta di persone, cioè da noi, quindi sta a noi prendere in mano la situazione, briciola per briciola e fare in modo, scusate la banalità, di essere il cambiamento che vogliamo.
Nel mio percorso di autocomprensione post diagnosi sono arrivata a capire che un accomodamento che per una persona può fare un’enorme differenza, potrebbe lasciarne un’altra totalmente indifferente, quindi non la penalizzerebbe in nessun modo, potrebbe in realtà arricchirla, perché se ci viene data la possibilità di espandere il nostro orizzonte relazionale, anche la nostra visione del mondo cresce.
Per tantissimo tempo la narrazione è stata quella del dover inserire, forzandone l’adattamento, le persone con disabilità all’interno della società, ma la verità è che noi siamo già in questa società, solo che non ci stiamo comodə ne confortevolə. Non siamo noi a doverci sforzare continuamente di funzionare come gli altri, ma è chi ne ha la possibilità che dovrebbe rivedere il modo in cui funzionano le cose per creare equità. Penso sempre ad un esempio banale: se al posto delle scale per entrare in un ufficio metto una rampa, chi può fare le scale saliva prima, ma sale uguale anche dopo, se lascio le scale invece escludo automaticamente o complico quantomeno la vita a tutta una serie di persone, cioè a chiunque non possa per qualsiasi motivo fare le scale: passeggini, stampelle, bambini piccoli, anziani, carrozzine, ipovedenti, caviglie slogate e mal di schiena inclusi. Sono tutti livelli diversi, sono tutte situazioni diverse, ma basta così poco, un cambio di paradigma. Basterebbe smettere di credere che esista un solo modello da seguire, ed utilizzare l’essere umano con tutte le sue possibili sfaccettature come modello.
Sono sicura che sia possibile, richiede tanto, tantissimo lavoro, su noi stessi e nelle relazioni con gli altri, a volte farà anche tanta rabbia, per certe ottusità ed astruserie che si sentono in giro.
Siamo a Settembre, cioè alla fine in realtà, spesso è più ora che Gennaio il momento in cui abbiamo la sensazione di nuovo inizio, di ricominciare (scuole, lavoro…) quindi mi faccio questa lista di buoni propositi:
A. Proverò a essere autentica e visibile, condividendo la mia esperienza di genitorə ADHD quando ne avrò l’occasione, per favorire la comprensione.
– Per esempio, durante un incontro con altre famiglie al parco, racconterò brevemente come vivo le sfide e le gioie di essere genitorə ADHD, per aprire uno spazio di dialogo sincero.
B. Proverò a offrire gentilezza e ascolto attivo, dando spazio alle parole e ai vissuti degli altrə senza giudizio, per costruire fiducia.
– Per esempio, ascolterò attentamente le storie di altre mamme o papà senza interrompere o minimizzare, mostrando interesse con domande di approfondimento.
C. Proverò a iniziare conversazioni semplici e mirate, facendo domande aperte sul quotidiano, per stimolare dialoghi reali e personali.
– Per esempio, potrei chiedere: “Qual è la cosa che ti piace di più fare con i tuoi figli in questo periodo?” invece di restare su argomenti generici o banali.
D. Proverò a proporre piccoli incontri informali, invitando famiglie al parco o a casa per momenti di condivisione e gioco tranquillo.
– Per esempio, organizzerò un pomeriggio al parco con uno o due genitorə e bimə, creando un ambiente rilassato dove poter parlare e far giocare liberamente i bimbə.
E. Proverò a condividere risorse e informazioni sull’ADHD e le neurodivergenze con chi mostra interesse, per diffondere consapevolezza.
– Per esempio, invierò via messaggio o condividerò un articolo o un podcast che mi ha aiutata, quando qualcuno accenna curiosità o dubbi sull’ADHD.
F. Proverò a praticare pazienza e resilienza, accettando che il cambiamento richiede tempo e continuando a seminare apertura e inclusione ogni giorno.
– Per esempio, se una proposta di incontro o conversazione non riceve una risposta immediata, continuerò a mostrarmi disponibile e positiva, sapendo che i rapporti si costruiscono gradualmente.
Per tantissimo tempo la narrazione è stata quella di dover inserire e far adattare le persone con disabilità all’interno della società, ma la verità è che noi siamo già parte di questa società, solo che non ci stiamo comodə e spessissimo non ci è confortevole.
Non dovremmo essere noi a doverci sforzare continuamente di funzionare come altrə, ma chi ha la possibilità dovrebbe rimodulare i meccanismi sociali per creare equità.
Rifletto spesso sull’esempio banale: se al posto delle scale per entrare in un ufficio metto una rampa, chi può fare le scale tanto quanto saliva prima, sale uguale anche dopo, ma chi prima non poteva salire ora ha una nuova possibilità. Se lascio solo le scale escludo automaticamente o complico la vita a molte persone (passeggini, stampelle, bambini piccoli, anzianə, carrozzine, ipovedenti, persone con caviglie slogate o mal di schiena).
Sono livelli e situazioni diverse, ma basta poco, un cambio di paradigma. Basterebbe smettere di credere che esista un solo modello da seguire e utilizzare l’essere umano con tutte le sue possibili sfaccettature come riferimento.
Ogni occasione quotidiana può essere momento per trasmettere questi valori, basta farli notare, allenarsi ed allenare le nostre personcine a notarli. Vedo un parcheggio per disabili? Lo lascio libero <<Mamma perché non hai parcheggiato là?>> risposta <<Perché è un parcheggio riservato a chi ha bisogno di spazio per salire e scendere o di essere più vicino all’entrata. Come chi ha la sedia a rotelle o fa fatica a muoversi camminando.>> stessa domanda sui parcheggi rosa <<Perchè è riservato alle persone incinta o con neonati, perchè camminare e fare tanta strada è più difficile quando si ha il pancione o con il passeggino>>; quando chiedono perché qualcuno ha le stampelle, o la sedia a rotelle, validare l’osservazione e dare risposte naturali: serve a camminare meglio, serve per spostarsi, tu usi le gambe, quella persona usa la carrozzina. Nel nostro mio caso inoltre non nascondo le mie difficoltà, se abbasso o spengo le luci a casa (che sono tutte regolabile ed a parte un paio sono tutte a luce calda) ed E o L mi chiedono perché io semplicemente rispondo che avere tante luci accese mi distrae, o mi fa venire mal di testa. Quando mi dimentico le cose ed E mi prende un po’ in giro (come sa fare una personcina di 4 anni “Eh, ti dimentichi sempre!”) rispondo che è vero, che la testa della mamma corre così veloce e con così tanti pensieri che ogni tanto qualcuno scappa, lo perdo per strada, ma che sono fortunata ad avere a fianco persone che mi ricordano e mi aiutano. Imparano in base a come noi ci comportiamo. Se siamo prepotenti, prendiamo in giro chi è diverso, canzoniamo, puntiamo il dito, sbeffeggiamo, non prestiamo attenzione, non portiamo gentilezza, come possiamo credere che lo facciano loro?
Una grande cosa mi diceva mia madre, ed io la dico ad E e L: “Tratta gli altri come vuoi essere trattatə tu”
Se vuoi gentilezza, dai gentilezza, se vuoi comprensione, sforzati di capire, se vuoi inclusione, accetta, se vuoi condivisione, condividi. Non è sempre facile, ma possiamo farlo ed essere l’esempio da cui possono imparare, non solo i piccoli, chiunque.
Questo blog è anche il mio modo di sostenere altre persone genitorə ADHD, perché si sentano meno sole, perché abbiano supporto dove magari io l’ho sentito carente, perché ci sia rappresentanza e accoglienza.
Per fortuna nell’era dei social ci sono moltissimi creator che diffondono e comunicano, però è fondamentale che questa comunicazione non resti confinata solo nella community, né solo a chi è neurodivergente. Serve una costante traduzione simultanea a due vie, un ponte.
Questa esperienza al parco, con tutte le sue sfumature di senso di esclusione, colpa e diversità, non è solo una scena isolata nella mia vita di genitorə ADHD. È un piccolo riflesso di un cammino più ampio, fatto di sfide quotidiane che spesso restano invisibili agli occhi degli altrə.
Ma quella stessa esperienza mi ha anche insegnato l’importanza di restare fedelə a me stessə, di non smettere di cercare connessioni vere, anche quando sembrano difficili o lontane.
So che il cambiamento richiede tempo, pazienza e tanta resilienza, ma è possibile coltivare relazioni autentiche, inclusive, fondate sulla comprensione reciproca e sull’ascolto sincero.
Condividere la mia storia, le mie paure e i miei buoni propositi è il primo passo per costruire ponti, per essere un sostegno, un’alleatə per genitorə che vivono situazioni simili, e per sensibilizzare chi ancora non conosce il mondo complesso e straordinario della neurodivergenza.
Il cammino verso una società più equa non è né rapido né scontato, ma io scelgo di percorrerlo, un piccolo passo alla volta. E, soprattutto, di farlo insieme a chi vorrà camminare accanto a me.
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